Valerio Dehò: Permutazioni, Galleria Spazia 2010

La poetica di Emanuela Fiorelli si richiama concettualmente alle esperienze optical e costruttiviste, esperienze nelle quali la struttura formale diventa un terreno per visioni multiple e per effetti ottici estremamente coinvolgenti. La sua ricerca ê astratta nella sua apparenza, ma le forme flottanti, sospese, sempre in leggero apparente movimento, danno spazialità ad una sorta di scrittura visiva. La Fiorelli sospende l’opera in uno spazio indefinito e lo spettatore ne diventa il complemento. La spazialità diventa una parte importante di un volume a metà tra virtualità ed effettività ed ê una vera e propria scoperta seguire la complessità delle strutture che al primo impatto si caratterizzano come un insieme puntiforme di linee collegate e colleganti gli elementi primari. Molto importante ê anche l’uso dei materiali come la tarlatana, un tessuto di cotone di ampia utilizzazione, il filo, con cui l’artista tesse delle complesse strutture geometriche che si compongono in forme spesso aggettanti e strettamente interconnesse ed ê proprio questo elemento che nella sua tensione ed estensione costituisce un “segno tridimensionale” che dà forma a delle architetture germinali, aperte.


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Permutazioni
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Nessuno spazio chiuso, anzi, la manualità raffinata del percorso semiotico infinito costruisce delle geometrie che spesso si rivelano in progress all’artista stessa. Il fare e il progettare diventano facce della stessa medaglia, proprio perché la progettualità ê strettamente connessa alla sapienza del fare. Caso ed esperienza mettono insieme gli elementi costruttivi determinanti e nello stesso tempo gli esiti più nuovi di una rivelazione spaziale che è pura intuizione. L’universo della Fiorelli mette in moto anche l’immaginario scientifico, la sua geometria emotiva crea labirinti, tracciati sempre leggeri che non rivelano mai interamente la propria origine. Sa dare forma dei misteri minimali e degli effetti di luce e di prospettiva che considerano sempre una totalità di punti di vista. Questa compresenza tra ordine e caos viene risolta nella funzionalità di una bellezza contemplativa che stimola la mente e l’occhio in una vertigine di percorsi e trame. La stessa “regola” dell’architettura come spazio definito e definitivo viene violata. Le strutture si rivelano per quello che sono in quanto pure relazioni, senza un guscio di contenimento che possa occludere allo sguardo il processo di formazione. Tali architetture prive di pareti, che la Fiorelli definisce "volumi incapaci", si protendono verso la terza dimensionec che ê pura ipotesi concettuale, direzione di sviluppo e dato reale infinitesimale. Sono albori di forme la cui complessità appare sempre in sviluppo, la conclusione dell’opera, la sua definizione in quanto spazio chiuso nell’ambiente-parete, sembra solo una formula provvisoria. Alcune volte ê possibile rintracciare dei punti di partenza, delle origini, anche perché l’artista opera spesso come spunto da un segno bidimensionale. Ma ê sempre la misura la chiave di volta del suo percorso, il fatto che tutto possiede una forma di energia misurata, ma enorme: qualcosa di simile al sublime matematico kantiano sprigiona da questi lavori, che sono dei veri e propri spunti per una meditazione diretta sul-l’arte. Su quest’ arte diventa abbastanza improbabile azzardare delle interpretazioni e delle metafore. Credo che poi tali opere essenzialmente “aperte” deb-bano parlare da sole e direttamente al pubblico. E’ importante, invece, collegare la misura al suo con-trario, la determinatezza e l’indeterminato, le opere della Fiorelli sono degli “osservatori delle non misure”, dei luoghi privilegiati in cui lo spazio si spoglia e diventa specchio di qualcosa di più grande e senza confini. Il colore certe volte dà l’illusione di una descrittività di riferimento, dall’altro dona uno sfondo ideale per la tecnica il cui il filo-segno crea estrusioni che lanciano la superficie nell’ambiente e nello spazio, come fecero Lucio Fontana, Enrico Castellani o Agostino Bonalumi, almeno per rima-nere dentro la tradizione italiana. Tra numero ed emozione il lavoro di Emanuela Fiorelli apre delle possibilità interessanti in chiave antropologica e riprende alcune esperienze che molte artiste italiane dalla Daniela De Lorenzo, alla Sabrina Mezzacqui o al lavoro più documenta-rio della Claudia Losi, hanno portato alla ribalta, cioê l’idea del recupero del lavoro femminile come condizione originaria e liberata. La tessitura, il cucito intesi non come recinto dentro al quale rin-chiudere l’ esperienza, ma come rapporto tra il tempo e l’apprendimento, sono direzioni di un recu-pero che l’arte contemporanea ha saputo fare della qualità dell’opera come artefatto. La progettazione ê importante solo se effettivamente viene realizzata dallo stesso artista, questi a differenza dell’artigia-no non esegue un progetto, ma prende spunto dal lavoro manuale per arrivare a qualcosa che prima non c’era, nemmeno nella sua mente. L’idea iniziale, lo spunto, non sono una condizione sufficiente, ma necessaria. E la Fiorelli porta proprio nell’am-bito di un impianto costruttivo forte, questa aleato-rietà del caso, le derive dell’energia creatrice, pur nel contenimento e nella moderazione di una poiesi sempre in cerca di equilibri e di strutture (seppur aperte e provvisorie). D’altra parte emerge da queste opere proprio come proprio il lavoro del cucire, del dare forma alle idee, debba avere una base algoritmica che le donne imparavano dalle tecniche di quella categoria, ormai desueta, dei lavori domestici, codificati anche nei curricula scolastici. Ma ê proprio questa insita razionalità a dare qualità alla Fiorelli per-ché come quell’architettura decostruttiva contempo-ranea sembra che le forme siano libere. Questa libertà discende da un attento calcolo, da una forma di apertura delle strutture che non vogliono essere confinate né nell’utopia modernista, ne nella vacua ripetizione della funzionalità fine a se stessa. Queste architetture sospese vengono “abbandonate” nello spazio fisico e mentale dell’arte, costituiscono il riverbero e l’essenzializzazione di esperienze percettive vissute direttamente dall’artista. In questo senso le sue sono opere astratto-concrete, perché non si risolvono (e concludono) nel fascino del calcolo, della sommatoria, di un linguaggio che ha cercato di tradurre l’emotività dell’arte in proporzioni e forme calcolabili e componibili. In questo caso abbiamo di fronte un lavoro che con-serva accanto alla concettualità e alla rivelazione del processo di sviluppo in quanto opera, un’emozionalità dichiarata che ê certamente vertigine, ma anche consonanza ai ritmi visivi. Questi ven-gono espressi certamente attraverso la segnicità del filo, ma anche perché l’apertura delle forme lascia intrappolare e filtrare la luce in scansioni ritmiche variabili, mutanti. La permutazione ê non solo una capacità creativa all’interno di una potenzialità teorica, ma anche la possibilità di dare a queste architetture una forza radiante. Ordine e cambiamento assumono una definizione visiva forte anche se mai aggressiva. La costanza del mutare nelle opere di Emanuela Fiorelli diventa l’affioramento delle energie luminose cat-turate, dei ritmi suggeriti dalle strutture filifor-mi, dallo scandire i ritmi della visione. La sem-plicità come punto d’arrivo, forse ê questa la cifra nascosta nella textures di questi lavori. Valerio Dehò Settembre 2010
Alcune opere esposte