Vittoria Biasi

White&White nel dialogo tra Corea e Italia



National Museum of Contemporary Art, Korea e Vittoria Biasi presentano White&White nel dialogo tra Corea e Italia ROMA, Museo Carlo Bilotti – Aranciera di Villa Borghese 29 Marzo – 2 Giugno 2013 Inaugurazione 28 marzo, ore 18

Dal 29 marzo al 2 giugno 2013 il Museo Carlo Bilotti – Aranciera di Villa Borghese ospiterà la mostra White&White nel dialogo tra Corea e Italia, organizzata dal National Museum of Contemporary Art, Korea, curata da Vittoria Biasi e Haeng-Ji Kim, e promossa dall’Assessorato alle Politiche Culturali e Centro Storico – Sovrintendenza Capitolina. La selezione è frutto della collaborazione tra Hyung-Min Chung, direttrice del National Museum of Contemporary Art, Korea, e Vittoria Biasi. Quest’ultima da anni rivolge da sua ricerca di storica dell’arte verso la monocromia bianca del Novecento. La mostra propone una riflessione su due distanti culture che s’incontrano sul pensiero e sui linguaggi del bianco. Come le molte mostre sulla monocromia bianca, verso la fine degli anni ’50, hanno quasi tracciato uno spartiacque nel panorama dell’arte, così la mostra White&White nel dialogo tra Corea e Italia segna uno spazio di ricognizione per due culture alle soglie di profondi cambiamenti sociali. L’esposizione binazionale permette una riflessione sul differente valore storico-artistico di avanguardia occidentale e consente di accostarsi alla cultura coreana e ai principi orientali verso cui è rivolta l’attenzione del pensiero contemporaneo. In mostra sono presenti opere della creatività emergente italiana attorno al concetto del monocromo bianco, frutto delle trasformazione dei linguaggi artistici del Novecento, accanto ad opere coreane provenienti dalle maggiori collezioni museali. La ricognizione bianca dei linguaggi italiani oscilla tra il desiderio di contatto con la realtà e l’intuizione o la percezione della stessa. La ricerca dell’anima celata nell’opera di Dongwan Kook, la collocazione di oggetti, come feticci di un culto, sono vicini alla poetica di Bohnchang Ko, di Cristiana Palandri, di Man-Lin Choi e si pongono in dialogo con il mondo delle stelle decapitate, con l’aspetto reale, trafitto, della condizione umana, come nell’opera di Franco Ionda. La sacralità della materia di Ionda è vicina alla sacralità dello spazio di Insu Choi. La scultura di In-Kyum Kim, con la rappresentazione lunare delle forme possibili dello spazio, l’ingresso silenzioso nella materialità dell’anima, come nelle sculture di Kwang-Ho Jeong , declinano il rapporto con l’esserci e con l’agire nello spazio espresso dalle opere di Insu Choi o dal filo di fibra ottica di Carlo Bernardini che traccia una possibilità d’individuazione dello spazio o di disegno nel vuoto. Paolo Di Capua incide segni nella materia, rivelazioni di trame profonde che pone in dialogo con il bianco, suggello di una ritualità, di un modello di vita. Le scritture di Oan Kyu attraversano la pagina come racconti minimi in successione continua. Il concetto di tempo, poeticamente esteso, riunisce le opere di Oan Kyu, di San-Keum Koh e del duo Stato di Famiglia che include nell’opera il concetto di segmento temporale comune per trascrivere lo spartito di John Cage. Le opere in mostra di Licia Galizia/Michelangelo Lupone, Dae-Hun Kwon, Fabrizio Corneli, Min-Ha Yang fanno smarrire il confine dell’avanguardia nella scienza. Fabrizio Corneli, Dae-Hun Kwon declinano l’ombra tra la progettualità e le leggi scientifiche della luce. Le opere di Min-Ha Yang e, ancora, di Licia Galizia/Michelangelo Lupone si relazionano con l’ambiente, con le sue presenze, vibrazioni che divengono movimento, calligrafia chiaroscurale per l’artista coreano e ritorno musicale per gli artisti italiani. La ricerca dell’irraggiungibile accomuna le poetiche di San-Keum Koh, Shin Il Kim e Paolo Radi: gli artisti si confrontano con la profondità che brilla sul fondo insondabile, dove risiede la luce, da cui nascono i sogni, contenuti di vite. Seo-Bo Park, Dong-Youb Lee e Chang-Sup Chung sono figure rappresentative della pittura coreana monocroma la cui pratica è incentrata sui segni lasciati dall’artista sulla tela, i quali accentuano il vuoto rimasto come se fosse uno spazio ricettivo e che nell’opera di Emanuela Fiorelli prende forma dal velo di tarlatana. La figura a cui la mostra affida il compito di congiunzioni di mondi, tempi e lingue è Nam June Paik, il pioniere della video arte internazionale, scomparso nel 2006. La sua linea bianca zen, è vicina al taglio di Lucio Fontana e alle ultime ricerche artistiche presenti in mostra.